giovedì 19 novembre 2009

L’ultima lentezza del corvo

L’ultima lentezza

del volo del corvo che da basso

raggiunta quasi in verticale la posizione

del cielo sopra il ramo alto del cedro

lascia posare il suo corpo

e si assicura con le zampette

ergendosi a sentinella

fermo nel dondolio del ramo.

 

Ecco, io ora intendo dire

quell’ultima lentezza del mantello

delle ali che silenzioso

si sfoglia finalmente

prima di richiudersi

e fascicolarsi tutto torno al corpo

fermo e affusolato nella veglia

sul ramo, fermo

del cedro

dondolante.

 

Io,

quando vedo quel gesto silenzioso

che rallenta e si impone

nel quadro del cielo che tutta impegna

la mia finestra ai prossimi stupori

lo so,

lo so così bene che sono nato

per tutto questo e subito, ricordo

immediatamente tutto

perché le idee sono la luce

debole del cosmo e la materia

sottile che nutre, intesse, lega,

partecipa e significa tutto

quel che può darsi

al corpo dell’esistenza.

 

E ricordando con mite meraviglia

volo io e vedo e più viaggio

così che dal cuore degli angeli

conosco le zuccherine vigne

delle riserve auree del possibile

e pascoli vergini e vergini colli

e mi ricordo ad esempio quasi ebbro

la rivelazione della pioggia a me

il cui mistero si cela

proprio mostrandosi tutto…

Fu prima di mettermi in cammino

tanto lungo sarebbe stato quell’andare

come breve e folgorante il remoto verso

che nel cuore mi piovve in quell’alba di piombo

e prima che il cielo più in quota

squarciasse l’azzurro di oceano

sul fragile respiro dei Pirenei

aprendo ai mondi iberici

di tanta Spagna

dalla Galizia all’Andalusia

 

e su quell’antico ponte che apre la strada

che fu di Annibale, Orlando e Napoleone

ora, ero io,

e tra me e me mi ricordavo di Dio

e di Adamo…

 

E quando Dio disse pioggia la pioggia fu

e quando piovve l’uomo solo guardò

a lungo la pioggia e disse: piove.

Quando Dio disse pioggia, piovve

E quando piovve l’uomo disse: piove.

 

Veramente benedetto è colui

che null’altro sapendo

si basta di mettersi alla ricerca di

tanto Dio

 

È così evidente che il vincolo

fra Dio e l’umanità è lo stesso vincolo

del genitore e del bambino mediante il mondo.

Basta guardare il mondo

qualsiasi mondo, tutto il mondo,

il mondo che è l’ologramma di Dio

e ricordarsi di essere stati bambini.

 

Ogni altro sforzo, ogni altra via

è un patto perverso.

 

Puoi astenerti dal mondo

ma il mondo è dentro di te:

ne sei costituito in fotoni,

elettroni, neutroni, protoni, atomi,

molecole, aminoacidi, cellule, mitocondri

proteine, tessuti, pulsioni, desideri, paure,

idiomi, figure, memorie, ombre, luci,

cause, tempi, spazi, marine, golene,

insenature, vaste foci di acque dolci,

fronde riparie pendule sul delirio

dei fragori di riviera, e animali

fecondi tra arbusti selvaggi

ubertose terre di Lucrezio

screziate notti di Luna urlante

umide conserve d’amore tra le segrete grotte

e interminati spazi di là dal circolo dello sguardo

sulle striate nubi in cui volando strappa nel vento il cielo

e animaletti pennuti che volando vanno come amanti

e molti e numerosi e del numero loro a dirsi più veloci

diversissimi animali e piante e fusti e fiori e foglie

e di tutto e della sua cantata memoria

il remoto e attuale racconto, l’enumerazione essenziale

che Pitagora rammemorò, la catalogazione organica

di Aristotele, e ogni stupito canto

la formula oscura e tonante del profeta

l’esposizione del dramma

il verso succoso del poeta latino

il diario intimo, ed ogni lingua

e allo specchio ogni forma di idioma e di pensiero

e canoni diversi e corone, principi, tiranni

repubbliche e pergamene con sangue versato

e cera lacca, sull’urlo della terra

di tutto questo mondo noto

e di altrettanto quattro volte tanto ignoto

tu sei fatto da sempre e per sempre

figlio, ultimo al nascere

poiché ciascuno nacque come ultimo ospite

in quell’ora della terra

e primo e solo e liberato

al sorgere umido di rugiada di questa compresa

antica eredità dell’anima

per le virtù dell’eterno.

E chi più dal mondo si astiene

più il mondo penetra in realtà,

significa, considera e conosce.

Poiché ogni esistenza è fatta di mondo:

il mondo sei tu.

Ma il mondo è ologramma di Dio

parimenti puoi pertanto abbracciare

il mondo come il fanciullo apre la braccia

camminando incerto verso

le altrettanto aperte braccia del padre,

della madre, degli amici, dei fratelli

e trovare immediatamente

come fa un abbraccio

come fa il tonfo felice della vera emozione

che tocca il cuore dei due o tre che si ritrovano

in nome di amicizia e verità

e nel convivio avvertono profondamente

questo scambio felice di vita

che illuminando i cuori

rinsalda, integra, festeggia,

libera e celebra, la vita

per questo apparsa e nata

venuta al mondo

e anche nell’ultima lentezza del corvo

riconosciuta

ritrovata

e nel tempo di un canto

nuovamente

libera e abbandonata.

 

Al davanzale

rimasto il cielo

il mio solo languore

uno stupore vero.

 

 

©Gabriele Via   

E il lettore che fa?

E il lettore che fa?


Gli esegeti del silenzio

se ne stanno là, le pareti

nel perimetro delle cose, sole...

 

...Aspettando il gesto di falena

che scardini il fuoco dei nomi

offrendo un movimento vitale

un dimenar di cosa

un lampo di gratitudine

un labbro di canto

alla sola luce…

 

...Fino alla nostalgia

della speranza.

 

C’era una volta…

            …la minestra riscaldata.

 

 

 

 

 

©Gabriele Via    

La vita (poema, monologo)

La vita

 

Rallegrarsi per la magia della sfera

 

rallegrarsi nel suono della voce

dell’acqua, del fuoco, dell’aria, della terra

 

rallegrarsi per la magia della sfera

 

per l’elettrica vicinanza delle cose

al loro invisibile corpo d’ombra

 

giungere a intendere la voce

degli elementi, dentro il cuore

e avvedersi che gli elementi

non sono veramente elementi,

ma altrettanti pianeti, sistemi, galassie

che noi intercettiamo col formidabile

decreto delle parole diverse

come diversa è l’esperienza comune

del calore, della luce, e del cibo buono

 

rallegrarsi quindi della vita per la vita

 

rallegrarsi per la magia della sfera

 

se da bambino mi avessero chiesto

Dio com’è, forse io non avrei guardato

l’Eden come Adamo dicendo è questo

avrei invece pensato e poi risposto

che Dio è una sfera avrei risposto

e poi pensato

 

e mi sarei così rallegrato,

cercando i sassi più tondi e lisci

per la formidabile magia ideale della sfera

che mi portava nell’armonia

così da sapere intendere finalmente

la voce nutriente del Dio vivente

 

Uno scontro di anime conflagranti

in un dove prima nullo

ed ora che come avvoltoi

volano in cerchio ripercuotendosi

sulla vita come calamità stagionali

in attesa di calare tra noi

e di noi nutrirsi fino far parte

di questa condizione naturale

miserabile e privilegiata

dove per la poco avvezza dimestichezza

nello scrutare il cielo per il cielo

si continua a profetare tra dispute

e controversie nella noiosa storia

delle continue fonti rinnovabili

dell’eterno verbo. Cosa ha

veramente voluto Dio?

Qual è il suo segno e quale non lo è,

pur sembrandolo…

D’altra parte l’esistenza implica

il concetto di creazione. Non si scappa.

Certo, ma il concetto di esistenza

da dove proviene? Dall’esperienza

sboccia come rosa per gemma.

E allora perché non riuscire

a considerare un dio dell’esperienza?

Perché no? Perché la gente

di questo buio tempo quando

dici dio ha la testa già piena

di tutto, tranne che di esperienza…

-E questo è il vero dolore del mondo

credimi-

Mentre quando parli di natura

ciascuno può rifarsi subito

alla propria sua esperienza.

-Senza che quel dolore tramuti in speranza-

Proprio così. E potremo mai colmare

Questo vuoto orrendo? E chi ha detto

che questo vuoto si deve colmare?

Non è mica detto che dio sia favorevole

al ponte sull’orribile stretto…

certo la storia, la tradizione,

forse anche già le fonti

indicano al lettore attento e capace

come il più alacre pontificatore

sia proprio il povero Lucifero, con

la sua ontologica ingenuità

nel voler peggiorar l’umana schiatta,

col suo teatrale armamentario

di pentolame rotto

e coperchi scompagnati…

Già… Forse come anche la notte

questa mancanza di luce

è necessaria.

Anche in Dio c’è un qualcosa

in cui e il silenzio di cui

non si può violare…

Così come per la questione inevasibile

dell’invisibile, irraggiungibile, indicibile...

 

Essere posti dalla vita in una data

situazione  fatta di relazioni, orizzonti,

limiti, condizioni, E in ciò, col trambusto

di una cucina in cui si stanno sbrigando

molti differenti piatti, vedere avvenire

tanti diversi dialoghi, da cui visioni,

desideri, progetti, speranze, intenzioni,

scoppiettano e zampillano come legna

di castagno in un falò. Per Bacco, dico io.

Permettere che ogni voce prenda la parola

potendo e volendo dire la sua.

Promuovere questa esperienza vergine

dell’esprimersi di giubilo. Fare spazio alla vita.

Anche se la vita sbatte, cade,

salta, sbava, urla, si agita e fracassa,

prima di scoprire la potenza della quiete

e la vastità del mare, da cui,

 -se lo è già dimenticata-

lei stessa è nata.

 

Rallegrarsi allora di questa sciarada

 

Fin da molto giovane mi accorsi

che uno scrittore, sia esso poeta,

romanziere o addirittura filosofo;

in ogni caso, laddove sia veramente

uno scrittore. Proprio nel momento in cui

meglio si esprime e più felicemente

riesce nel suo trattare con le parole

ecco che invece confida e si affida,

in un puro atto di fede, alla iniziativa,

capacità e buona volontà

di uno sconosciuto, che neanche

sa se c’è o meno, se è ubriaco, se dorme,

se può essere in grado, con le sue sole forze

di affrontare la cosa: il lettore.

A costui lo scrittore porge un’estremità

della cima di salvataggio della situazione.

Il lettore è colui che la deve afferrare.

In tal modo lo scrittore esaurisce, per così dire,

una data e limitata disponibilità

in cui si era trovato ad essere

(la chiamano ora ispirazione)

e per cui egli è uno che scrive,

e tu sei uno che legge. Tale condizione

di “disponibilità” di cui diciamo

è ontologica, è cioè dell’essere

e nell’essere scrittore,

e da quest’essere, anche se

non è d’accordo, ecco che

trascendentalmente lo scrittore

spera, auspica, supplica, pretende,

minaccia, chiede, prega, geme, lamenta,

ricatta, ordina, invoca, urla, canta…

Non guarda in faccia a niente e nessuno…

Affinché quella condizione

dell’essere in cui egli “versa”,

e per cui le sue parole

sono sembrate veramente

esaurirsi contro la vuota scodella

rovesciata del cielo, venga

con tutte le sue parole finite,

a incontrare, anche inciampando,

un buon samaritano,

uno straniero lettore

pronto a diventare subito complice

senza conoscere né il piano

né il mandante

né il prezzo di questo folle ingaggio:

 

tutto ciò per una storia di salvezza.

 

In realtà si potrebbe credere

che il lettore sia poi lo stesso scrittore

in incognito. Ma non è proprio così.

Infatti lo scrittore legge –è vero-

e prima di tutti e da solo

annusando con cura ogni centimetro

della sua lunga striscia di muco verbale

ancora calda e piena di umori interni…

Ma a differenza di un vero lettore,

che si incammina fiducioso

per cercare la luce di cui ha diritto

in quanto lettore, regolarmente iscritto,

agognando quel momento fatidico

che ogni poeta crea nel quale tu che leggi

ti accorgi di avere finalmente in mano

una torcia nella notte oscura,

lo scrittore in questione legge invece

ripercorrendo alla cieca

e contando i passi, tutto lo scritto:

allo scopo di uscirne, se possibile

ancora un volta, vivo e

liberato dalla sua stessa scrittura.

Ritrovare la luce, se non del sole

almeno delle stelle. Comunque

una luce vera; non un suo simulacro

non la parola luce.

Nessuno scrittore trova luce

in fondo alle parole che scrive.

Ma scrive per aiutare gli altri,

anche gli altri che sono in lui,

che furono e che saranno,

a fare un salto o un cammino

che porti verso questa luce.

 

La luce è sempre da un'altra parte

e la vita non sa dove abbiamo messo le cose

 

Siamo troppo stregati dalla magia della sfera

in viaggio come Colombo andando

si torna ed altro cercando

altro si trova viaggiando

riconoscere la voce dell’acqua,

camminando. Prendere così fiato,

e restituirlo quel fiato: animato

e con le mani rimescolato.

 

Decumani di amari fantasmi

popolati e viali che affliggono

le loro lunghe braccia

fino a noi dal cielo smisurato amati

desiderati… degli dei rincasati

 

E la voce dell’acqua

 

Col suo vento formidabile

in fondo, sulla coda

 

la voce dell’acqua

con una punta di sale

 

che sfugge dalle ali degli uccelli

per l’elettrica vicinanza delle cose

al loro invisibile corpo d’ombra

 

A questa maniera io ho visto la luna

quella che comunemente viene detta

luna piena… Dove piena indica

completa, totale, finita.

Siccome le altre fasi sono dette

frazioni: quarto, metà, tre quarti…

 

Ed ho capito, come un essere ragionevole,

che quando la luna è piena

è solo la sua metà. C’è l’altra

quella che non vedi. Quella che

da questa terra non potremo mai vedere:

quella realmente invisibile

per l’essere terrestre.

Quella, in superficie e sostanza

è veramente la sua metà…

Ma a noi basta vederne una metà nella luce

e diciamo di vederla tutta, piena.

In realtà, se non la tieni in mano

o non ti muovi come un pianeta,

una sfera la vedrai sempre, solo, per metà.

Il nostro sguardo vedente

sbatte sulla sua faccia

e poi cercando di abbracciarla scivola…

Disegnando un cerchio di lotta

con la luce per cadere infine nel buio

chiamando quel punto inesistente

orizzonte. La sfera, così,

che in quanto tale possiede

connotati di ombra

e di invisibilità

in egual misura di quanto possiede

di visibile, diventa simbolo

di verità.

La sfera di cristallo permette di vedere l’invisibile:

ciò che ancora non è

ciò che più, qui dove le cose sono,

adesso solo non è.

 

Siamo ancora come l’occhio del primo nato

per la magia della sfera tutto stregato

 

 

ora si vive

la luce è sempre da un'altra parte

e la vita non sa dove abbiamo messo le cose

ora scrivendo

ora leggendo

 

per tutto questo

elementare stupore

da cui possiamo sempre

ricominciare

 

 

 

 

 

 

 

©Gabriele Via

ALLA RICERCA DI UN ORDINE... e alcuni chiarimenti mentre il motore parte

Imparerò a usare lo strumento come si impara a camminare: camminando.

Mi scuso pertanto se troverete alcune scomodità, dapprincipio... Ma forse anche a seguire.

Da quattro giorni ho iniziato a curare la mia pagina di Facebook con l'intento di veicolare la già detta uscita del mio ultimo libro. E la mia attività di scrittura più in generale.

L'ultimo libro: si tratta di una Agenda-Haiku. Un progetto che ho curato assieme a Lavinia Turra; un'agenda perpetua che presentasse per ogni giorno (una pagina, un giorno) una poesia Haiku.
Questo progetto è ora nelle librerie italiane per Corbo Editore.
Sulla pagina di Facebook ho deciso di pubblicare un Haiku al giorno, tratto dall'agenda per gentile concessione dell'editore.
La grafica che impongo di volta in volta agli Haiku non è quella dell'Agenda. Ora ho subito pubblicato i primi haiku, da domani terrò in parallelo le pubblicazioni. Quando poi sarò capace le linkerò semplicemente. Se ha un senso, se si può e se è funzionale.

La mia scrittura in generale: ho scelto di delegare alla poesia Articolo quattro, comma secondo (pubblicata come prima opera a seguire l'editoriale) il compito di sostituire il manifesto etico, poetico, estetico. Il riferimento del titolo vuole coniugare due termini che già nella Grecia classica (faccio qui riferimento a Giorgio Colli) erano bastantemente indicati e definiti come reciprocamente altri. Intendo dire il termine politico e il termine mistico. Io, e non sono certo il solo, sono profondamente convinto che sia possibile (moralmente lo considero un dovere) integrare la miglio luce di questi due aspetti. Credo anche di essere consapevole che questi due termini abbiano subìto nel cuore del secolo scorso una pericolosa strumentalizzazione entro i tragici orizzonti linguistici del delirio totalitarista, italiano prima e tedesco poi. Ciò non di meno rivendico la dignità, la profondità e la ricchezza: in una parola la fecondità di questi due termini, cercando io stesso, con le mie poche forze ma in prima persona con la scrittura, un'attualizzazione personale di una possibile integrazione. Mi rendo che è un tema classico e ricorrente. Per me, tuttavia, è proprio un sentimento personale ed esistenziale che mi coinvolge, mi mobilita, mi interroga. 
Leggendo l'articolo 4 comma secondo della nostra Costituzione della Repubblica Italiana: 
"Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società." 
apparirà evidente il fondamento civile del mio intervento poetico. 
Ma non può esaurirsi certo in un afflato a senso unico dalla poesia alla civiltà, una vocazione di scrittura che voglia integrare le due categorie di politico e mistico. Occorre anche il motore inverso. Occorre cioè che vi sia uno slancio autorevole e insieme popolare dalla civiltà (in qualunque condizioni di salute si trovi) alla poesia. Questo è più necessario del primo movimento a mio giudizio.
Ne parleremo, spero. So che ce n'è un grande bisogno.

Oltre a questo mandato morale, storico, educativo della scrittura; sono profondamente coinvolto dall'ispirazione mistica per il verbo di lode. Intendo ciò con la maggior gamma possibile di accezioni. Vorrei contenere in questa difficile e forse per certuni polverosa definizione, tanto il Salmista che certi luoghi di Montale. La spiritualità della parola non è una questione religiosa in senso istituzionale, ma è un'esperienza religiosa in senso vitale.
Io vivo quotidianamente dentro il miracolo rivelato della parola. Scrivo ininterrottamente mio infinibile taccuino di lode per la vita. Ritengo, coi miei limiti in natura e cultura assai evidenti, di essere un onesto lavoratore della lode in parola. Dio questo mi ha dato, e, da quando credo di averlo capito, questo io cerco di perseguire come il mio cammino. Così scrivo, così come respiro. Non importa che ci sia un contesto precisato e programmato entro cui intervenire. Scrivo come un animale lancia il suo verso nella notte, scrivo come il vento che decide inatteso di sgusciare da dietro le foglie... scotendo la natura. Scrivo. Considerando il dono enorme e sapendo che ogni parola che mi riesce di restituire scrivendo aumenta il mio debito, non lo diminuisce. Come l'amore, scrivere è un'azione esclusivamente in perdita. Prima lo si sa, meglio sarà.
Il carattere dominante di questo aspetto della mia scrittura che ho scelto di presentare per secondo, essendo in verità il principale in ogni senso, è la gioia.
Una gioia terribile, se posso ancora usare queste due parole nella loro prossimità. Esiste una gioia, su cui tutto si fonda, la quale non si fonda su nulla. Lei è responsabile di qualcosa di divino (potremmo dire in un linguaggio specifico che si tratta di un angelo) che in noi mobilita pensieri parole e azioni. Il cuore è il luogo in cui alla lettera atterra questo spirito di fuoco... e incarnato nel mistero della vita ecco che ci disseta. 

Quindi, in poesia e in riflessioni, tenendo queste due barre sempre presenti, inizierò... no: ho già iniziato, questa navigazione.


Gabo



Articolo quattro, comma secondo

Articolo quattro, comma secondo

 

Cosa ci faccio ora qua?

Io vorrei dimenticare subito…

 

…Se anche solo venti giorni fa

formicolavo tra le carte compilando

nel furibondo impeto della luna

versi e strofe che mi consegnavano

di sicuro altrove - io credevo

ed ora: la luna tace,

qualcuno mi ricorda, forse

con un'altra faccia,

tra i monti etruschi,

oltremare, in paradiso,

o in un paesello.

E a me pare invece di essere qui,

contrariando alquanto quel volo,

per cui già scrissi più versi celesti

e vivi; facendo accadere magie.

 

Allora, ancora, io mi domando:

cosa ci faccio ora qua?

Io vorrei dimenticare subito…

 

Ma,

esiste ancora una specie di cieca

indifferenza, con cui si entra nelle case,

un tempo vive, abitate, e che hanno

veduto molti natali e primavere anche,

coi loro fiori e le donne accudire

piante aromatiche ai quattro angoli del cielo,

e richiamare da in fondo ai prati

figlioletti, comari, giovincelli infebbrati

di tutto questo giocoso vivere

inavvertitamente avviato al ripido

tramonto come un giunco un tempo

elastico ed ora scheletro impagliato

attorno ad un’adusa bottiglia

che si svuota e si riempie…

 

Io vorrei dimenticare subito

un solo verso adesso appena

scritto e come un canto di uccello

incontrarlo ancora per meraviglia

 

e chiedergli come alla vita chiedo

dimmi amore mio da dove vieni

 

Ma è un silenzio questo anche che

copre e scopre lo spessore vivo

di un dolore continuante come

i risvolti del labbro finale del mare

sulla pettinata riva

ondeggianti

nel breve cupore del bagnasciuga

 

e al cader delle foglie sopraggiunge

un sentimento intermittente e nuovo

ed una linfa segreta ci pare

che si ficchi tra le crepe umide

della minuta e inumidita terra

lungo il mese dei faticosi fanghi

aspettando visioni da una luna

poiché tutti ancora confidiamo

a ragione nella buona fortuna

 

Forse è per questo che Narciso guata

ma mi sfugge l’idiozia per cui cade

 

non basta dire che era giovinetto

e che quindi scivolando rovinò

noi lo sappiamo che quegli si tuffò

in un modo che spiegare non si può

 

Ma questo autunno allora ci par fatto

per accendere un fuoco ancora

e pregare gli dei veloci dentro la testa

per ritrovare di poi nel fondo del cuore

quell’unico Dio che diciamo di amare

in antiche e più tradotte parole

e con la neve prossima alle guance

sapremmo pare di cosa si tratta

in questa vita lieve e bestiale

ché dobbiamo finalmente imparare

ad ascoltare

 

Ma quando finalmente arriva il sole

con l’insistenza acerba della luna

il cui massimo splendore consiste

di un lume inghiottito dalla notte

 

la vita intera nuovamente allora

pur di collaborare con te muta

 

Per nessuna libertà rinuncerei

a questa voce che si incontra amica

già in Francesco e quindi in Dante

 

e che soggiorna di poi volentieri

per ben diversi secoli più viva

e travaglia il mio spirito tutto

coi maestri nuovi dell’ottocento

 

e quindi con familiarità cresce

con Ungaretti Saba e Montale

e che in età verde incontrò la Francia

 

come in cucina si adoperano

basilico salvia e rosmarino

 

e i poeti inglesi e tedeschi

fino alla profonda madre Spagna

e ai mistici fratelli d’Irlanda

 

per nessuna libertà abbandonerò

la mia storia. Con essa sono nato

e con essa io solo ritornerò

 

per mezzo del vento il cielo si è

liberato delle nubi. Gli alberi

non sono andati da nessuna parte

 

la politica talora

deve concedere tutto lo spazio

a queste sole parole dell’arte

 

scopriremo allora una famiglia:

russi, polacchi, turchi, portoghesi,

argentini, bengali, caucasici,

navajo, egizi, greci, triestini…

 

per nessuna libertà rinuncerei

a questa voce di capra

che a ciascuno mi affratella

senz’altro progetto da parte di dio

 

ma perché qui siamo nati

con qualche fiume storto tra le terre

e mare e luna e numerose stelle

©Gabriele Via      
è giovedì 19 novembre 2009, alle 15,55 inizia questo cammino. 
Io sono Gabriele Via. Poeta.
Alzo la mia voce nello spazio umano dell'ascolto e della partecipazione, in rete.
Non so dove porterà questo passo. Ma sento che è ora. 
In questi giorni è uscito il mio primo libro distribuito in tutta Italia. Un libro con tanto di codice ISBN, che ancora non ho imparato a memoria, ma che mi ha emozionato come un primo giorno di scuola... Quando la cosa cadeva in ottobre.
Non posso sapere chi saranno i lettori delle parole che adopero in questo spazio. So però che ho sempre presente a me stesso l'idea di un lettore, mentre scrivo. Un'idea che cerco di figurarmi sempre il più concreta possibile. Anche se alle volte prende il largo e se ne va per un po'. Poi torna, vestita in modo diverso, con parole nuove, modi di dire e di fare che sono segno di un viaggio... Ho tuttavia presente la presenza dell'altro che legge. 
A seguito di una conversazione con un caro amico, autorevole poeta della lingua italiana, mi sono così spinto a scommettere e a tirare i dadi del tempo. Ieri erano ciclostili appiccicosi. Oggi sono sofisticate macchine che si emozionano invece di numeri in fila. Eccomi.

Inizio dunque il cammino con questo modesto editoriale di circostanza. Al quale aggiungo i principali interessi della mia scrittura e della mia attività.

la mia prima proposta è dunque la seguente. Anziché dichiarare subito un qualcosa con parole che possano essere scolpite in un personale manifestino. Caso mai con una cartesiana enumerazione progressiva e organica. Gioco subito la carta di una licenza, di una eccezione.
in luogo delle dichiarazione di principi, valori, articoli, codici, statuti epistemologici, fonti e fedi, dico questo: sono italiano. Mi chiamo Gabriele Via. Sono nato il 19 febbraio 1968 a Bologna. 

Vorrei comprendere se iniziare con la poesia che ora pubblico può avere un senso...

Io lo credo

Buona lettura e buona partecipazione

Gabo