martedì 9 marzo 2010

Quel che dobbiamo fare

Per imparare a star soli

ci vuole un sacco di gente


fasti e fastidi in grisaglia

reti di rami di vite messaggi

tra boschi indivisi con proprie loro voci

acque lente fino a perdersi

in cadute densità anelanti

la vita vestita in tutti i modi

che questo pianeta offerto al sole

domanda in indovinelli

di cinquemila anni di devozione

che attende ancora tutto il rispetto

dalle più cieche e diverse

eterogenesi etnografiche

 

Dio non l'ho inventato io

io il superbo, Cesare,

l'ometto sui tacchi di ferro

io che mi sono inventato tutto

io più io che continua a fare sempre solo io

e che io invento ad ogni mio

la meticolosa ruota

l'astrolabio e il velcro

l'orologio ontologico da polso

la cerbottana, la televisione

e l'ornitologia... E più ancora

 

I flop letterari e le finte duchesse

ma anche quelle vere

e tutto con enorme sciupio di successo

la ricchezza (e sono buoni tutti

dopo Caino e Salomone)

Ma anche la più sottile povertà...

il Fondo Monetario Internazionale!

 

Ma Dio, tuttavia, non l'ho inventato io?

 

Lo ripeto chiaramente a costo

di sciupare tutta una poesia

 

Per imparare a star soli

ci vuole un sacco di gente

 

Solo la noia, la profonda paura

che spegne ogni pulsione

fino alla struttura sorda

di una dura nausea

che ciò nonostante vuole ancora

convulsamente dirsi

come l'anguilla nel tegame

come le più cupe acque di Parigi

solo questo e solo a tratti

appare morto e alla morte

per una distrazione della carretta

sembrerebbe dire O.K. Fottiti!

 

Ma non è vero neanche questo

è solo il maledetto bluff dell'ombra

che non sa, più che chiunque altro,

di dipendere sempre dal sole

 

Puoi rompere bicchieri sul tavolo della cena

gettare rose rosse al macero di asfalto

la sera dell'otto marzo

schiacciare piccioni nel crocicchio

dell'Olympia mentre un cameriere

bretone ti serve un croque monsieur

puoi ripetere formule di vita alla rovescio

e credere di voler credere l'incredibile

 

Non un solo capello che tagli o tingi

non una cellula di pelle che spaventi di tatuaggi

non un metallo che infili nel corpo

ripeterà con te il mantra che non c'è

neanche quel goffo modo di camminare

che prima d'ogni cosa esporta la tua paura

di viso pallido... ti porterà a Finisterre

ché nella fossa inciampi ubriaco

mentre bestemmi la vita

non ci arrivi fuggendo Samarcanda

 

Nulla confonderà

l'itinerario della fuga. Anche se nessuno

per tacito decreto lo dirà più.

 

Ma chi fugge fugge: è semplice.

 

Dio non l'ho inventato io

 

Adamo dove sei?

 

Sei lì che provi a fare un ragionamento

forse hai finalmente capito

come i formaggi di Francia

sull'orizzonte del palato

hai capito che il fastidio

non esiste

ma è solo un fasto 

vergognoso 

della paura in trionfo

 

Ogni fastidio è stupidità

crassa ignoranza con l'arroganza

di compiacersi degli occhi

per non vedere

 

Adamo dove sei?

rimescolo il mondo

per arrivare ai tuoi occhi

di vero vedente

sul tenero timone di Giona

tu che sei il solo amato

da sempre

 

Grisaglia di fasti e fastidi

toccano gli occhi del Dio buono

a contatto con l'antico labbro

del mondo che dall'alba dei dodici

calendari annuncia e cerca

una stagione di novità prossime

promesse...

 

Sì: ancora in sospeso la ricognizione

di Adamo e della sua posizione

sulla carta del cuore stampata

sulle ali di una man manca

carezza involata

per pelle porpora che si apre

vicina vicina vicina

 

C'è un amore che ti aspetta

col suo nome da scoprire

 

E quando riderà con gli occhi

vedrai la sua voce

 

Per imparare a star soli

ci vuole un sacco di gente

 

tra olocausto e apocalisse

preme una vera pace di cose chiare

 

apprezzare sconosciutamente

la vita: bagno nudo di fiducia

tra ignoto e ignoto

domanda e risposta

per rivelazione sola

 

i ragionamenti allora

belli come animali di fatica

come orecchini deposti

sul comodino per l'ora dell'amore

dormiranno sulla soglia

a coppie di tre

come i profeti che sanno

dove fermarsi: quando tacere

dove il tuo varco

apre una luce nuova

inizio del fiume che prosegue

 

bisogna fare spazio alla primavera

 

Gli imperi crollano

sono interamente costruiti

con crollato di speranza-

un sale armonico prodotto nella luce lunare;

stanno su quel che possono

più brevi del tempo

di una parola di una favola

poi se ne vengono giù

tremando in settima

tra polvere di restituzione.

 

La verità -come sempre disarmante-

è che non sapevamo dove metterceli

 

Da Nerone a via Veneto

Da Notre-Dame a La Défense

 

Forse Lisbona credeva d'essere la prima

era così bello il suo sorriso languido

sull'orlo tra le note cose e l'ignoto

 

E venne il suo giorno obliquo

l'india non può essere rinchiusa nel comò

 

Oh essere in grado di fare uso

della memoria, nel silenzio.

 

Gli Olandesi hanno comprato la terra

da Omero e venduto imperi agli sciocchi

i mulini non crollano al vento

ma come i sogni crescono volando

 

Oh essere in grado di fare uso

della memoria, nel silenzio.

 

Farsela venire in mente

questa memoria; ancor prima

di avere un ricordo

confabulare amichevolmente

con lei

forse questo è il segreto

 

Bisogna fare spazio alla primavera

soprattutto nei ricordi

dove tutto dipende da noi

 

capire la musica

che avvicina e che dilata

che fa avvenire le cose

con timore di Dio

tutte le cose

nel loro darsi

di fiore che sboccia

vita che si vive

negli attimi e negli anni

fino alla mano

che infine cede

e dopo tante carezze

ti lascia

come la madre che muore

 

e ti lascia il compito

di tanto enigma

ciò che possiamo dire

quel che dobbiamo fare

 

ci vuole un sacco di gente

per imparare a star soli

 

bisogna fare spazio alla primavera

 

altrimenti cosa viviamo a fare?

 

C'è un amore che ti aspetta

in fondo a qualche posto a metà

col suo nome da scoprire

 

l'avevi già incontrato

perché non l'avevi incontrato

 

e ce ne vuole un sacco di gente

tra ciò che possiamo dire

e quanto dobbiamo fare

solo per imparare a star soli

 

capire il bisogno

con devozione

vivere il desiderio

con dignità

 

bisogna fare spazio alla primavera

in ogni caso

 

l'amore arriva, come l'ape sul fiore

 

Non sarai mica ancora lì

con le istruzioni

per costruire la tua gabbia?

 

Le api vanno sui fiori

le mosche sulla merda

i cretini corrono in edicola

 

e per salvare l'insieme

delle cose e con dignità:

guarda là fuori:

oltre questi versi graffiati

su vetri antichi di parole

 

Da qualche parte la vita

con indovinelli di sangue

ti aspetta già;

di più, ti cerca ancora

 

 

 

©Gabriele Via   Parigi, 8 marzo 2010 

 

Sulla poesia gli equivoci sono infiniti

Sulla poesia gli equivoci sono infiniti

come sulla vita, sull'amore e su Dio.

 

Per non tirare in ballo la questione

della bellezza: è bello quel che piace

-senti ancora urlare qualche imbecille-

 

Ma bellezza e poesia, sono misteriose.

(a che titolo ciò non dovrebbe starci bene?)

 

La bellezza è una risposta:

spesso la giudichiamo senza conoscere

la domanda... Della bellezza possiamo

dire poco e in pochi... La poesia poi...

È ancor più indicibile...

 

Molti credono (in realtà per sentito

dire) che se ne stia dentro:

e non osano per ciò aprir bocca.

 

Altri protestano per le strade

urlando contro tutto e tutti

 

"nessuno

si può impossessare della poesia"

gemono con rabbia

di fanciulli disobbedienti

che ora si accorgono

di non essere più considerati…

"Ce la riprendiamo!" proseguono,

intanto "Poesia per tutti!

Poesia per liberare gli oppressi!

Poesia e Rivoluzione!"

 

In genere dopo un po' si stancano

e fanno qualcos'altro

o non sapendo o volendo fare

nient'altro ecco che alcuni si fanno

venire i capelli bianchi urlando:

 

"Poesia per tutti!

Poesia per liberare gli oppressi!

Poesia e Rivoluzione!"

 

Ma la poesia non sta per strada

e nemmeno negli esecrati salotti

 

Non è nella parola che si prosciuga

(attenti ai frigidi spiriti

della poesia prosciugata.

Sono persuaso che se fosse loro

offerto il timone

ci porterebbero al suicidio collettivo)

Non è neppure nel fiume inesauribile

dei mercati urlanti da prima

che fosse ribaltata

la clessidra polverosa dei giorni

 

La poesia è un parto.

 

Tra casa e strada…

preferisce stare negli orti.

Non è fuori, non è dentro:

ce l'hai presente un parto?

La poesia è sul nascere...

 

Non è la puerpera, che urla come una

bestia... Non è l'infante, che tira

spallate contro la luce... Non è il padre,

assente o ancora intontito di

meraviglia... Non la nutrice, le maniche

rimboccate che lavora...

La poesia è il parto,

non le parti: ma tutto il parto.

 

Per questo è sola.

 

Di lei subito si dimenticano tutti

o ne traggono brani tecnici

per la psicologia, l'igiene

la sociocultura, l'educazione,

l'economia l'alimentazione,

la moda, l'arte...

 

Mentre la poesia è poesia,

nella sua impossibile interezza.

 

Chi vede la poesia

lì, sul nascere

conosce anche come la bellezza

è una risposta volontaria

al dolore del parto

al suo violento andarsene

dagli occhi, lo stesso giorno

come fanno le nubi

un pomeriggio di marzo...

 

E la densità

che ci accompagna

a non temere il tempo

almeno oggi

nel cuore luminoso

di questo eterno parto...

 

E in un lastrico di equivoci civili

sappiamo anche dire: “quindi”,

come se tutto avesse avuto un senso…

 

…Ma la bellezza è solo una risposta,

tutta la risposta.

 

Forse abbiamo dimenticato ombrello

bussola, metro, forbici, spago

non possiamo ancora tirare le fila

 

E tu trascuri la vita

e vuoi leggere le risposte?

 

Soffermati su questi due

piccoli equivoci: scoprirai

che sei tu l'equivoco maggiore.

 

Se Dio è Dio

perché non essere un sarto?

 

©Gabriele Via      Parigi, 5 marzo 2010