sabato 28 novembre 2009

La vita è il rumore della pioggia

le sue sorprese colte di rimbalzo

un presente del presente più presente

uno schizzo che ritorna e ti coglie

il rumore della pioggia

 

Il rumore della pioggia è una scatola

che riecheggia senza copro

senza pareti

è un disturbo delle cose

delle cose più lungo

le supera senz’orlo

trabocca ma non riempie

restando flusso eccede 

 

il rumore della pioggia

compare improvviso

come un attacco in levare di un ensemble

per chiudersi poi improvviso

in un esaurirsi lento di stille

come lucciole in giardino

nel nero fuoco delle notti di giugno

dilagando un silenzio umido

e vergine per le odorose strade

fumanti

 

il rumore della pioggia

un tessuto denso di trame di vita

ordite di oblio chiacchierato

dal sommario del diluvio

in cui ci capita capitare

aspettando che passi

il circo cosmico sul trabicolo

e il suo libero andare

che è il rumore della pioggia

che ti scricchiola nel cuore

 

seppure non venga da nessun dove

prima che il dove fosse da qualche parte

si preparava già della pioggia il rumore

costruito con presagio di tuoni

dentro gli occhi buoni di Dio

ancora tutto silenzioso e possibile

ma più del piombo

di solenne peso fatto

 

il rumore della pioggia

segue lo sbigottire del creatore

davanti al suo creare di parola

e silenzioso demolisce le metafore

in verità spicciole, e rigonfia 

l'ulteriore promessa di ogni seme


©Gabriele Via

giovedì 26 novembre 2009

La poesia è una cosa troppo grande

perché la sola architettura di un racconto

vi si affacci col pretestuoso progetto

di recingere, contenere, delimitare,

governare con ragione il suo territorio

il suo ambito linguistico… Non si può.

 

A un certo punto un gallo canterà,

si farà giorno, verranno le ombre della luna;

ancora non avremo chiarito dove

ficcare il primo picchetto,

aprire veramente il cantiere…

 

…Allora ci guarderemo stupiti

nude le mani e una lenta stilla

cadervi trafitta nel sole di domani

 

la poesia è una cosa troppo grande

e ricomincia sempre a volare

 

 

 

 

©Gabriele Via     

mercoledì 25 novembre 2009

Vedere non è vedere

Per quanto tempo ancora

andremo avanti  con la storia degli occhi

 

chiamiamo vedere

un qualcosa di così incerto

sottile

indicibile

 

per quanto tempo ancora…

 

lo vogliamo capire?!

gli occhi non vedono

 

oh sì, ci piace guardarli

e parlare del loro vedere

 

e quando li guardiamo

diciamo cose senza senso

 

tiriamo in ballo e il mare e il cielo

i boschi, la notte e i ruscelli

fate turchine, pirati

principi d’Arabia e celebri tramonti

 

ma dove stanno

tutti questi aggeggi polverosi

queste mongolfiere stanche

delle nostre emozioni

 

gli occhi non vedono

 

la vista avviene

se attraverso gli occhi piove

come rugiada sullo specchio antico

e vergine del nostro cuore

l’anima del mondo

 

certo

è facile dire che gli occhi vedono

ma è come dire che i piedi camminano

 

i piedi, si sa, sopportano

non possono fare altro

siamo noi che camminiamo

incerti nella notte

loro ne farebbero a meno volentieri

 

è come dire che le orecchie pensano

 

non si impara alla finestra l’amore

ma ti nasce cieco e potente in petto

e ti scaraventa nel mondo

 

poveri occhi, lasciamoli in pace

che per ogni cosa che attribuiamo

di sapere per il loro cieco sguardo

dimentichiamo l’intero mondo

di castelli che abbiamo creato

tutti da soli a lume di naso

al loro silenzioso

impotente cospetto

 

…lo sguardo finale

lo si offre sempre

ad occhi chiusi

 

vedere non è vedere

ma offrire un lume impossibile

da questo misterioso vivere

alla figurata cecità del mondo

 

 

 

©Gabriele Via

martedì 24 novembre 2009

cerimonioso saluto di un viaggiatore

A Milano, a Dublino

a Dehradhun, a Santiago

a New York, Barcellona e sul monte Pollino

i neonati piangono allo stesso modo

e squarciano il torpore delle gemme

manifestando il sole del mattino

il loro urlo uguale

la querelante voce di ogni altro male

 

ma

riunito appena nel coacervo

dell’alito linguistico

di consigli, nenie e antiche profezie

ecco che assumerà una impronta

a cui assoggetterà un nome

e imparerà il menadito di una storia

 

e in un baleno

risbatterà ai quattro angoli del mondo

New York, Santiago

Dehradhun, Dublino

e, in ultimo,

a un certo punto,

con buona pace di tanta poesia

finalmente, anche Milano

 

Ed io - che a Livorno ci sono stato,

oltre a conoscere un po’ di stazioni -

me ne sono accorto stamane

facendo colazione:

prima per celia,

poi perché il dolore è eterno:

e tra le voci ogni carta scambia…

 

 

 

 

 

@Gabriele Via 

lunedì 23 novembre 2009

Bastano veramente poche righe

Bastano veramente poche righe

di circostanze imbastite alla meglio

ma meglio ancora se l’abbozzo è crudo

e ci penserà l’architetto del cuore

 

E come un giardino apparirà

e saremo pronti a far la prova

appena così convinti dal simile

la scarpetta di cristallo è per noi

 

Cara Fenice ancora è per pochi

allo stato delle cose rinascere

i più sgretolano nell’esistere

confidando all’incirca in un Dio non visto

 

ché non basta una vita al vero

per ogni palpito ne fosse valsa

la pena così concreto il dolore

e così inesperti a fare uso del cuore

 

Ed io che ho il solo dono di vederci

e dove più lontana si inarca

la dolce melodia carnosa della viola

fabbrico la metrica degli stupori

 

e un giorno da questo trampolino

qualcuno: un amante o un solitario

si accorgerà con tremendo stupore

che anche questo ha un senso

 

che nascere dunque ha un destino

se lo credi disegnato nella luce

e per una tale libertà vale

il cammino che tutto porta e brucia

 


@Gabriele Via  


venerdì 20 novembre 2009

MI AIUTA UN CANE

Scrivo poesie, perciò non so mai nulla.


Mi aiuta un cane che a memoria

conosce Omero.

 

E a memoria un giorno io vorrei

che venissi da me a perdere un po’

di quel tempo noto se cercherò di

mostrarti il mio rovo che ha sapore

pur senza avere un solo scopo.

 

Tutto il mio giardino è di questa fatta

e prima credevo che un altro mondo

vi fosse, veramente (spaesato altrove

immaginato dallo stupore dei bimbi)

 

col suo faceto corpo di romanzo

di avventura un po’ vigoroso

di severo sergente un po’ luminoso

di quell’azzurro fiore…

 

Né capivo la curiosa trasferta

di quanti da quel loco il dì di festa

accorrevano a lodare soltanto

non cogliendo un solo fiore

non cercando un frutto di addentare

come se dovessimo la vita

più che a Dio all’istituto dei musei…

 

Poi, mi resi conto: in un baleno

e lo volle certo solo Dio,

ché non avevo fatto un cammino,

pregato demoni o bevuto un veleno.

Mi si rivelò micidiale, ultimo, il vero.

 

Oltre questo giardino non c’è niente

e la poesia che in tutto ho coltivato

sola nutre quella ripida fine

che attraversando gli occhi e il cuore

tutte le cose fanno

senz’altro progetto che andarsene

dileguare, inconsapevoli, sparire…

 

Io sono nell’eterno da un pezzo:

da bambino Dio mi scelse poeta.

 

 

 

 

 

©Gabriele Via  

giovedì 19 novembre 2009

L’ultima lentezza del corvo

L’ultima lentezza

del volo del corvo che da basso

raggiunta quasi in verticale la posizione

del cielo sopra il ramo alto del cedro

lascia posare il suo corpo

e si assicura con le zampette

ergendosi a sentinella

fermo nel dondolio del ramo.

 

Ecco, io ora intendo dire

quell’ultima lentezza del mantello

delle ali che silenzioso

si sfoglia finalmente

prima di richiudersi

e fascicolarsi tutto torno al corpo

fermo e affusolato nella veglia

sul ramo, fermo

del cedro

dondolante.

 

Io,

quando vedo quel gesto silenzioso

che rallenta e si impone

nel quadro del cielo che tutta impegna

la mia finestra ai prossimi stupori

lo so,

lo so così bene che sono nato

per tutto questo e subito, ricordo

immediatamente tutto

perché le idee sono la luce

debole del cosmo e la materia

sottile che nutre, intesse, lega,

partecipa e significa tutto

quel che può darsi

al corpo dell’esistenza.

 

E ricordando con mite meraviglia

volo io e vedo e più viaggio

così che dal cuore degli angeli

conosco le zuccherine vigne

delle riserve auree del possibile

e pascoli vergini e vergini colli

e mi ricordo ad esempio quasi ebbro

la rivelazione della pioggia a me

il cui mistero si cela

proprio mostrandosi tutto…

Fu prima di mettermi in cammino

tanto lungo sarebbe stato quell’andare

come breve e folgorante il remoto verso

che nel cuore mi piovve in quell’alba di piombo

e prima che il cielo più in quota

squarciasse l’azzurro di oceano

sul fragile respiro dei Pirenei

aprendo ai mondi iberici

di tanta Spagna

dalla Galizia all’Andalusia

 

e su quell’antico ponte che apre la strada

che fu di Annibale, Orlando e Napoleone

ora, ero io,

e tra me e me mi ricordavo di Dio

e di Adamo…

 

E quando Dio disse pioggia la pioggia fu

e quando piovve l’uomo solo guardò

a lungo la pioggia e disse: piove.

Quando Dio disse pioggia, piovve

E quando piovve l’uomo disse: piove.

 

Veramente benedetto è colui

che null’altro sapendo

si basta di mettersi alla ricerca di

tanto Dio

 

È così evidente che il vincolo

fra Dio e l’umanità è lo stesso vincolo

del genitore e del bambino mediante il mondo.

Basta guardare il mondo

qualsiasi mondo, tutto il mondo,

il mondo che è l’ologramma di Dio

e ricordarsi di essere stati bambini.

 

Ogni altro sforzo, ogni altra via

è un patto perverso.

 

Puoi astenerti dal mondo

ma il mondo è dentro di te:

ne sei costituito in fotoni,

elettroni, neutroni, protoni, atomi,

molecole, aminoacidi, cellule, mitocondri

proteine, tessuti, pulsioni, desideri, paure,

idiomi, figure, memorie, ombre, luci,

cause, tempi, spazi, marine, golene,

insenature, vaste foci di acque dolci,

fronde riparie pendule sul delirio

dei fragori di riviera, e animali

fecondi tra arbusti selvaggi

ubertose terre di Lucrezio

screziate notti di Luna urlante

umide conserve d’amore tra le segrete grotte

e interminati spazi di là dal circolo dello sguardo

sulle striate nubi in cui volando strappa nel vento il cielo

e animaletti pennuti che volando vanno come amanti

e molti e numerosi e del numero loro a dirsi più veloci

diversissimi animali e piante e fusti e fiori e foglie

e di tutto e della sua cantata memoria

il remoto e attuale racconto, l’enumerazione essenziale

che Pitagora rammemorò, la catalogazione organica

di Aristotele, e ogni stupito canto

la formula oscura e tonante del profeta

l’esposizione del dramma

il verso succoso del poeta latino

il diario intimo, ed ogni lingua

e allo specchio ogni forma di idioma e di pensiero

e canoni diversi e corone, principi, tiranni

repubbliche e pergamene con sangue versato

e cera lacca, sull’urlo della terra

di tutto questo mondo noto

e di altrettanto quattro volte tanto ignoto

tu sei fatto da sempre e per sempre

figlio, ultimo al nascere

poiché ciascuno nacque come ultimo ospite

in quell’ora della terra

e primo e solo e liberato

al sorgere umido di rugiada di questa compresa

antica eredità dell’anima

per le virtù dell’eterno.

E chi più dal mondo si astiene

più il mondo penetra in realtà,

significa, considera e conosce.

Poiché ogni esistenza è fatta di mondo:

il mondo sei tu.

Ma il mondo è ologramma di Dio

parimenti puoi pertanto abbracciare

il mondo come il fanciullo apre la braccia

camminando incerto verso

le altrettanto aperte braccia del padre,

della madre, degli amici, dei fratelli

e trovare immediatamente

come fa un abbraccio

come fa il tonfo felice della vera emozione

che tocca il cuore dei due o tre che si ritrovano

in nome di amicizia e verità

e nel convivio avvertono profondamente

questo scambio felice di vita

che illuminando i cuori

rinsalda, integra, festeggia,

libera e celebra, la vita

per questo apparsa e nata

venuta al mondo

e anche nell’ultima lentezza del corvo

riconosciuta

ritrovata

e nel tempo di un canto

nuovamente

libera e abbandonata.

 

Al davanzale

rimasto il cielo

il mio solo languore

uno stupore vero.

 

 

©Gabriele Via   

E il lettore che fa?

E il lettore che fa?


Gli esegeti del silenzio

se ne stanno là, le pareti

nel perimetro delle cose, sole...

 

...Aspettando il gesto di falena

che scardini il fuoco dei nomi

offrendo un movimento vitale

un dimenar di cosa

un lampo di gratitudine

un labbro di canto

alla sola luce…

 

...Fino alla nostalgia

della speranza.

 

C’era una volta…

            …la minestra riscaldata.

 

 

 

 

 

©Gabriele Via    

La vita (poema, monologo)

La vita

 

Rallegrarsi per la magia della sfera

 

rallegrarsi nel suono della voce

dell’acqua, del fuoco, dell’aria, della terra

 

rallegrarsi per la magia della sfera

 

per l’elettrica vicinanza delle cose

al loro invisibile corpo d’ombra

 

giungere a intendere la voce

degli elementi, dentro il cuore

e avvedersi che gli elementi

non sono veramente elementi,

ma altrettanti pianeti, sistemi, galassie

che noi intercettiamo col formidabile

decreto delle parole diverse

come diversa è l’esperienza comune

del calore, della luce, e del cibo buono

 

rallegrarsi quindi della vita per la vita

 

rallegrarsi per la magia della sfera

 

se da bambino mi avessero chiesto

Dio com’è, forse io non avrei guardato

l’Eden come Adamo dicendo è questo

avrei invece pensato e poi risposto

che Dio è una sfera avrei risposto

e poi pensato

 

e mi sarei così rallegrato,

cercando i sassi più tondi e lisci

per la formidabile magia ideale della sfera

che mi portava nell’armonia

così da sapere intendere finalmente

la voce nutriente del Dio vivente

 

Uno scontro di anime conflagranti

in un dove prima nullo

ed ora che come avvoltoi

volano in cerchio ripercuotendosi

sulla vita come calamità stagionali

in attesa di calare tra noi

e di noi nutrirsi fino far parte

di questa condizione naturale

miserabile e privilegiata

dove per la poco avvezza dimestichezza

nello scrutare il cielo per il cielo

si continua a profetare tra dispute

e controversie nella noiosa storia

delle continue fonti rinnovabili

dell’eterno verbo. Cosa ha

veramente voluto Dio?

Qual è il suo segno e quale non lo è,

pur sembrandolo…

D’altra parte l’esistenza implica

il concetto di creazione. Non si scappa.

Certo, ma il concetto di esistenza

da dove proviene? Dall’esperienza

sboccia come rosa per gemma.

E allora perché non riuscire

a considerare un dio dell’esperienza?

Perché no? Perché la gente

di questo buio tempo quando

dici dio ha la testa già piena

di tutto, tranne che di esperienza…

-E questo è il vero dolore del mondo

credimi-

Mentre quando parli di natura

ciascuno può rifarsi subito

alla propria sua esperienza.

-Senza che quel dolore tramuti in speranza-

Proprio così. E potremo mai colmare

Questo vuoto orrendo? E chi ha detto

che questo vuoto si deve colmare?

Non è mica detto che dio sia favorevole

al ponte sull’orribile stretto…

certo la storia, la tradizione,

forse anche già le fonti

indicano al lettore attento e capace

come il più alacre pontificatore

sia proprio il povero Lucifero, con

la sua ontologica ingenuità

nel voler peggiorar l’umana schiatta,

col suo teatrale armamentario

di pentolame rotto

e coperchi scompagnati…

Già… Forse come anche la notte

questa mancanza di luce

è necessaria.

Anche in Dio c’è un qualcosa

in cui e il silenzio di cui

non si può violare…

Così come per la questione inevasibile

dell’invisibile, irraggiungibile, indicibile...

 

Essere posti dalla vita in una data

situazione  fatta di relazioni, orizzonti,

limiti, condizioni, E in ciò, col trambusto

di una cucina in cui si stanno sbrigando

molti differenti piatti, vedere avvenire

tanti diversi dialoghi, da cui visioni,

desideri, progetti, speranze, intenzioni,

scoppiettano e zampillano come legna

di castagno in un falò. Per Bacco, dico io.

Permettere che ogni voce prenda la parola

potendo e volendo dire la sua.

Promuovere questa esperienza vergine

dell’esprimersi di giubilo. Fare spazio alla vita.

Anche se la vita sbatte, cade,

salta, sbava, urla, si agita e fracassa,

prima di scoprire la potenza della quiete

e la vastità del mare, da cui,

 -se lo è già dimenticata-

lei stessa è nata.

 

Rallegrarsi allora di questa sciarada

 

Fin da molto giovane mi accorsi

che uno scrittore, sia esso poeta,

romanziere o addirittura filosofo;

in ogni caso, laddove sia veramente

uno scrittore. Proprio nel momento in cui

meglio si esprime e più felicemente

riesce nel suo trattare con le parole

ecco che invece confida e si affida,

in un puro atto di fede, alla iniziativa,

capacità e buona volontà

di uno sconosciuto, che neanche

sa se c’è o meno, se è ubriaco, se dorme,

se può essere in grado, con le sue sole forze

di affrontare la cosa: il lettore.

A costui lo scrittore porge un’estremità

della cima di salvataggio della situazione.

Il lettore è colui che la deve afferrare.

In tal modo lo scrittore esaurisce, per così dire,

una data e limitata disponibilità

in cui si era trovato ad essere

(la chiamano ora ispirazione)

e per cui egli è uno che scrive,

e tu sei uno che legge. Tale condizione

di “disponibilità” di cui diciamo

è ontologica, è cioè dell’essere

e nell’essere scrittore,

e da quest’essere, anche se

non è d’accordo, ecco che

trascendentalmente lo scrittore

spera, auspica, supplica, pretende,

minaccia, chiede, prega, geme, lamenta,

ricatta, ordina, invoca, urla, canta…

Non guarda in faccia a niente e nessuno…

Affinché quella condizione

dell’essere in cui egli “versa”,

e per cui le sue parole

sono sembrate veramente

esaurirsi contro la vuota scodella

rovesciata del cielo, venga

con tutte le sue parole finite,

a incontrare, anche inciampando,

un buon samaritano,

uno straniero lettore

pronto a diventare subito complice

senza conoscere né il piano

né il mandante

né il prezzo di questo folle ingaggio:

 

tutto ciò per una storia di salvezza.

 

In realtà si potrebbe credere

che il lettore sia poi lo stesso scrittore

in incognito. Ma non è proprio così.

Infatti lo scrittore legge –è vero-

e prima di tutti e da solo

annusando con cura ogni centimetro

della sua lunga striscia di muco verbale

ancora calda e piena di umori interni…

Ma a differenza di un vero lettore,

che si incammina fiducioso

per cercare la luce di cui ha diritto

in quanto lettore, regolarmente iscritto,

agognando quel momento fatidico

che ogni poeta crea nel quale tu che leggi

ti accorgi di avere finalmente in mano

una torcia nella notte oscura,

lo scrittore in questione legge invece

ripercorrendo alla cieca

e contando i passi, tutto lo scritto:

allo scopo di uscirne, se possibile

ancora un volta, vivo e

liberato dalla sua stessa scrittura.

Ritrovare la luce, se non del sole

almeno delle stelle. Comunque

una luce vera; non un suo simulacro

non la parola luce.

Nessuno scrittore trova luce

in fondo alle parole che scrive.

Ma scrive per aiutare gli altri,

anche gli altri che sono in lui,

che furono e che saranno,

a fare un salto o un cammino

che porti verso questa luce.

 

La luce è sempre da un'altra parte

e la vita non sa dove abbiamo messo le cose

 

Siamo troppo stregati dalla magia della sfera

in viaggio come Colombo andando

si torna ed altro cercando

altro si trova viaggiando

riconoscere la voce dell’acqua,

camminando. Prendere così fiato,

e restituirlo quel fiato: animato

e con le mani rimescolato.

 

Decumani di amari fantasmi

popolati e viali che affliggono

le loro lunghe braccia

fino a noi dal cielo smisurato amati

desiderati… degli dei rincasati

 

E la voce dell’acqua

 

Col suo vento formidabile

in fondo, sulla coda

 

la voce dell’acqua

con una punta di sale

 

che sfugge dalle ali degli uccelli

per l’elettrica vicinanza delle cose

al loro invisibile corpo d’ombra

 

A questa maniera io ho visto la luna

quella che comunemente viene detta

luna piena… Dove piena indica

completa, totale, finita.

Siccome le altre fasi sono dette

frazioni: quarto, metà, tre quarti…

 

Ed ho capito, come un essere ragionevole,

che quando la luna è piena

è solo la sua metà. C’è l’altra

quella che non vedi. Quella che

da questa terra non potremo mai vedere:

quella realmente invisibile

per l’essere terrestre.

Quella, in superficie e sostanza

è veramente la sua metà…

Ma a noi basta vederne una metà nella luce

e diciamo di vederla tutta, piena.

In realtà, se non la tieni in mano

o non ti muovi come un pianeta,

una sfera la vedrai sempre, solo, per metà.

Il nostro sguardo vedente

sbatte sulla sua faccia

e poi cercando di abbracciarla scivola…

Disegnando un cerchio di lotta

con la luce per cadere infine nel buio

chiamando quel punto inesistente

orizzonte. La sfera, così,

che in quanto tale possiede

connotati di ombra

e di invisibilità

in egual misura di quanto possiede

di visibile, diventa simbolo

di verità.

La sfera di cristallo permette di vedere l’invisibile:

ciò che ancora non è

ciò che più, qui dove le cose sono,

adesso solo non è.

 

Siamo ancora come l’occhio del primo nato

per la magia della sfera tutto stregato

 

 

ora si vive

la luce è sempre da un'altra parte

e la vita non sa dove abbiamo messo le cose

ora scrivendo

ora leggendo

 

per tutto questo

elementare stupore

da cui possiamo sempre

ricominciare

 

 

 

 

 

 

 

©Gabriele Via